. ricordi al vetriolo


C’è chi può vantare uno splendido rapporto con i propri genitori.

Altri, come me, si limitano ad alzare le spalle e a lasciare intendere che è uno di quei rapporti convenzionali che vanno avanti senza bisogno di porre interrogativi. Nessuna delle due parti ne avrebbe voglia, dopo anni e anni di discussioni pre stampate.


Problemi di incomprensione piuttosto gravi, a tal punto che spesso credo di parlare una lingua diversa rispetto alla loro. Un idioma nuovo probabilmente sviluppatosi nel corso degli anni, influenzato da correnti esterne al bilocale d’infanzia. Due linguaggi che non trovano incastro, poiché coniati in epoche lontane.

Come se guardassimo in direzioni opposte, come se non trovassimo lo stesso sentiero. Mete diverse e diversi modi di concepire il viaggio.

In quale momento ci siamo persi? In quale istante si è spezzata quella trama di affetto incondizionato, sincero e fiducioso degli anni della mia infanzia? Non trovo risposte, e mi ritrovo a convivere con due persone che a malapena sanno che cosa sto studiando da due anni a questa parte. Due persone che di fronte alle discussioni più futili, più lineari, sanno reagire solo alzando il tono di voce (come se la cosa ormai sortisse su di me un effetto diverso dalla rassegnazione) e imponendo un religioso silenzio, come a significare che nel momento in cui le bocche si chiudono, le questioni si risolvono. Si avvalgono ormai di un’autorità pressoché inesistente, e fanno appello ai sani valori di rispetto e stima che una figlia normalmente (a dir loro) prova nei confronti di chi li ha generati, cresciuti e nutriti con tanto amore. Tutto ciò nella speranza di tornare a circondarsi di quell’aura di rispettabilità che una volta mi metteva tanto in soggezione.


Quella persona appassita sul divano in sala una volta era “il mio papà”. E quanto affetto trapelava da queste tre paroline! Quando si avvicinava l’orario della cena, mi appostavo in camera fino a sentire il gracchiare della sua auto che parcheggiava nel garage, e poi correvo ad aprire la porta, per aspettarlo lì sulla soglia e saltargli al collo. Vecchi ricordi che hanno perso tutto il loro sapore, avvelenati dall’incomprensione maturata di anno in anno. Abbiamo finito per guardarci di sfuggita con reciproca rassegnazione, smettendo di sperare che uno dei due diventi ciò che l’altro desiderava avere. Un padre che sa ascoltare, una figlia che sa accettare: due ruoli che non siamo mai stati capaci di interpretare. Lui ha finito per andare avanti nel tentativo di diventare un uomo saggio, stimato e rispettato, finendo per diventare un estraneo in casa propria, e un fallito nel mondo lì fuori. La facciata che ha provato (che prova) a costruire si vena di mille e mille crepe, di innumerevoli imperfezioni, visibili a sua figlia più che a chiunque altro. L’audi (usata), i vestiti di classe (rammendati), le scarpe di cuoio (regalate), le cene offerte (a fatica). Un quadro pietoso. Uno spettacolo pessimo, soprattutto se visto dal “dietro le quinte”; una vita mediocre, costellata di delusioni e fallimenti repentini.


Sicuramente ciò che lui pensa sul mio conto non sarà meglio di ciò che ho appena scritto su di lui. La propria figlia come la delusione peggiore, finita a studiare in una scuola che non le darà un titolo di cui vantarsi con gli amici, che non indossa abiti firmati ma preferisce accozzare stoffe e colori inusuali e di poco gusto, che non si adegua al tanto decoroso standard di ragazza bergamasca, che non si accontenta della musica “che ascoltano tutti” ne dei locali bergamaschi “in cui vanno tutti”, che si ostina a fare la ribelle e ad uscire con dei drogati, che non ha riconoscenza ne rispetto per nessuno, che si colora la pelle con gli aghi e si infila pezzi di ferro nella carne. Che delusione son stata per te, papà. Son diventata esattamente l’opposto di quello che avresti voluto che io fossi.


Una figlia l’hai persa quattordici anni fa.
Questa te la sei giocata in un momento impreciso della sua adolescenza.


. geniale

. regina dei ghiacci

Scucire i fili che tengono sigillata una vecchia ferita e tornare a farla sanguinare, per pulirla ancora una volta. Quante volte è necessario ripetere l’operazione per giudicare l’intervento riuscito? E quand’è che osservando la cicatrice si può stabilire di aver fatto un numero sufficientemente alto di tentativi?

 

Questa notte mi son sentita definire come “un muro liscio, piatto, impossibile da scalfire”.

Io son fatta di emozioni nella loro forma più grezza, più materica. Ho come alleate più fedeli le lacrime, ma mi chiamano carnefice.

 

Vale la pena di rimettere sul tavolo carte che avevo accantonato per rivedere il mio futuro? Vale la pena di dispensare condoni a chi si mostra pentito per conto di terzi? A chi non si “prende la briga” di continuare a tentare, ma che si abbandona a confidenze fuori luogo con persone che verranno di certo a riferirmi ogni parola?

Sono arrabbiata, ancora una volta, e la nicotina stasera non riesce a sedarmi, i pensieri macinano e corrodono.

Mi ritrovo a dover riprendere in mano una delle questioni pi spinose che mi sia capitato di affrontare negli ultimi anni; e questo per via di un incontro “fortuito” tra il mio presente e il mio passato (metaforicamente parlando), in uno dei tanti, inutili locali dell’anziana bergamasca.

L’ennesimo spettacolino messo in scena davanti alla persona più conveniente, oppure sincero pentimento nascosto alla diretta interessata per orgoglio marcio e sbandierato a terzi per un dolore troppo grande da nascondere?

Leggo le mie parole e le sento banali, ma non trovo frasi nuove per ripensare a una questione consumata per mesi. Sostanzialmente, io pensavo non ci fosse più niente da dire.

Ora mi viene chiesto (indirettamente, come sempre) di concedere una possibilità. Ma di rimando mi chiedo: cos’ho da guadagnarci IO? Mi posso permettere di essere egoista questa volta? Posso evitare di riaprire cassetti, posso aggirare conversazioni fastidiose, posso fare a meno di tornare a trascinre vecchi problemi già risolti per conto mio?

Perché riavviare un processo per una questione che non mi sta più a cuore?

Buona, son buona. Di certo non la Madre Teresa della Val Seriana, ma un pezzo di pane sì. Basta veramente poco per smuovermi, chi mi conosce lo sa bene. E non è questione di toccare i tasti giusti, è questione di metterci il cuore. Nel momento in cui la persona che ho davanti ci mette l’anima, mi sciolgo come neve al sole. Se però vedo indifferenza, se sento silenzio, la mia reazione non potrà che esser simile, non potrò far altro che declassare la questione. Tu non ci metti impegno, io mi rassegno.